Gentile direttore di GEOPOP, seguo da tempo il suo sito e lo seguono tanti amici appassionati di storia e che mi hanno segnalato l’articolo “È vero che i Savoia e il Regno di Sardegna hanno depredato il Regno delle Due Sicilie?” (a firma di Erminio Fonzo). Forse è necessaria qualche osservazione con una premessa ironica, visto il vostro prezioso lavoro in tanti settori: anche i migliori possono sbagliare?
Nell’articolo si espongono diverse tesi diffuse in maniera spesso ripetitiva e da oltre un secolo e mezzo nella cosiddetta storiografia “ufficiale”.
Secondo l’autore, allora, “non ha fondamento storico” la teoria secondo la quale il Sud fu “conquistato e depredato dai Savoia” e quindi centinaia di studiosi e meridionalisti che hanno sostenuto questa tesi da circa 150 anni scrivono sciocchezze. Solo per fare qualche esempio, scrisse sciocchezze Nitti quando elogiava il sistema fiscale e le finanze napoletane denunciando gli “spostamenti di ricchezza” e “le spese per tutti gli scopi di civiltà e di benessere fatte in grandissima parte nel Nord”?
Scrisse sciocchezze anche Antonio Gramsci (“Lo stato italiano è stata una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”)? E, per fare solo qualche esempio più recente, hanno scritto o detto sciocchezze Vito Tanzi o Dario Fabbri, Alberto Angela, Riccardo Muti, Camilleri, Scalfari o Gratteri o (come ammise Della Loggia) la “maggioranza della intellettualità diffusa (insegnanti in testa) del Sud”, convinta della tesi dei primati, della conquista o del saccheggio?
Dal punto di vista economico il Sud, per l’articolista, era già arretrato rispetto al Centro-Nord e il ritardo risaliva a “molti secoli prima”. Peccato che nella breve bibliografia allegata (due libri sul tema, uno del 1989 e l’altro del 1993) io non abbia trovato John Davis (la tesi dell’arretratezza preunitaria meridionale “fu inventata dagli unitari” per giustificare i loro fallimenti). Peccato che non ci siano neanche tanti accademici che in questi ultimi anni hanno sostenuto il contrario: per Fenoaltea e Ciccarelli (altro che economia “solo agricola”) nel 1871, nonostante fossero già trascorsi dieci anni di smantellamento dell’apparato industriale dell’ex Regno delle Due Sicilie, l’indice di industrializzazione della Campania era ancora dello 1.01% (Napoli all’1.44%, Torino all’1.41%), 0.98% in Sicilia (uguale al Veneto; Puglia 0.78, Emilia 0.85). Dall’analisi dei dati sulla Produzione Industriale Aggregata risulta, poi, che Campania e Sicilia erano ancora al terzo posto sempre nel 1871 per valore aggiunto su 16 regioni: il Sud aveva più o meno lo stesso peso del Nord-Ovest (32.4%). Il tutto contrapposto ai dati successivi (drammatici per il Sud) nel 1911. Dal censimento del 1861, inoltre, risulta anche che le Due Sicilie occupavano il 51% della forza lavoro complessiva italiana (oltre1.600.000 addetti su circa 3.100.000 complessivi). Stesso quadro per quanto riguarda Pil e redditi medi, simili o (in alcune regioni) superiori a quelli del resto dell’Italia fino al 1860, come risulta dai recenti studi di Daniele e Malanima.
Inutile, forse, citare i dati evidenziati sempre dal Nitti sui depositi bancari (al Sud 443 milioni sui 668 complessivi di tutti gli stati della penisola messi insieme) o quelli di Stephanie Collet (le condizioni finanziarie erano come quelle “della Germania di oggi”).
In quanto alla arretratezza risalente “a molti secoli prima”, inviterei l’articolista ad una maggiore prudenza sia perché è indimostrato che in epoca magari antica e medioevale il Sud fosse più arretrato del Nord (penso al grande e potente Ducato napoletano o al potente e vasto regno angioino e aragonese e agli studi di Del Treppo), sia perché una tesi simile potrebbe sfociare involontariamente nel razzismo con un popolo (per l’articolista) mai capace, per secoli, di migliorare le sue condizioni…
Per la questione relativa alla arretratezza sociale, l’articolista cita ancora i famosi e abusati dati relativi all’analfabetismo, dati sui quali, in un mio studio accessibile online a tutti, ho evidenziato molti lati oscuri e inattendibili sia nella rilevazione che nella pubblicazione (i documenti originali sono spariti e risultano, nell’Archivio di Stato di Napoli, numeri molto alti relativi alle scuole pubbliche “borboniche”). Un altro accademico (Maurizio Lupo), del resto, è stato molto chiaro di recente: “l’immagine negativa [delle scuole borboniche] non trova piena conferma nei risultati della ricerca sul campo: il Mezzogiorno partecipò alla modernizzazione scolastica”.
Sorvoliamo, poi, sull’esaltazione di liberalismi e costituzioni piemontesi (evidentemente sospese mentre si cannoneggiavano e massacravano le popolazioni meridionali o si approvavano quelle Leggi Pica che autorizzavano quei massacri e la deportazione di decine di migliaia di meridionali o si trattava con l’Argentina il loro “trasferimento” in Patagonia).
Ci chiediamo, poi, che senso abbia magnificare magari retoricamente i liberalismi e i costituzionalismi inglesi o piemontesi e non tenere conto delle condizioni generali di vita delle popolazioni con quelle delle Due Sicilie prime in Italia e spesso in Europa per crescita demografica (popolazione raddoppiata tra 1750 e 1850), longevità, numero di medici e ospedali, strutture assistenziali, livelli di alimentazione, mortalità infantile, assenza di emigrazione oltre che per numero di teatri o libri pubblicati, solo per fare qualche esempio con parametri positivi diventati negativi solo dal 1860 in poi come dimostrato in diversi miei saggi o nei recente saggio di Vittorio Daniele.
Sulla questione relativa al fatto che l’unità “non avvenne per un’invasione dall’esterno” e “i garibaldini furono soprattutto cittadini meridionali”, restiamo davvero perplessi. Nel primo caso siamo costretti a ricordare all’articolista che fu proprio il liberale e antiborbonico Croce ad evidenziare che l’unificazione fu la conseguenza di “un urto esterno, sia pure dall’urto di una forza italiana”. Sui garibaldini l’unico studio archivistico finora portato (parzialmente) alla luce è quello dell’Archivio di Stato di Torino: su 13.976 garibaldini risulta solo meno del 30% circa di meridionali e di essi ben il 16% dalla Sicilia e sulla Sicilia dobbiamo citare il prof. Paolo Macry: si trattava della parte peggiore della società siciliana (in pratica la mafia): “uomini selvaggi e violenti inviati dall’aristocrazia terriera siciliana a dare man forte al generale nizzardo” (Corriere della Sera 2/10/12). Mancano nell’articolo di Geopop anche i riferimenti a quelle “spedizioni dei volontari garibaldini”: oltre 23.000 dai porti del Nord in Sicilia in circa 4 mesi, come risulta da un puntuale e sconosciuto opuscolo del tempo. Numerosissimi i soldati e gli ufficiali dell’esercito sabaudo misteriosamente “congedati” o “disertori” (studiai il caso emblematico di un Enrico Scuri, sabaudo, garibaldino e poi di nuovo sabaudo nell’Archivio di Stato di Torino). Altro che “maggioranze meridionali”…
Per l’articolista, poi, quella del brigantaggio non fu una guerra contro i Savoia ma un episodio di delinquenza comune “da secoli presente al Sud”. Al di là dello spunto quasi lombrosiano con questi meridionali “nati delinquenti”, certo è, invece, che nella plurisecolare storia meridionale prima del 1860 non furono mai impiegati (e per oltre 10 anni) oltre 120.000 soldati, elemento che spinse lo stesso D’Azeglio ad ammettere che non bastavano tutti i battaglioni inviati al Sud e sarebbe stato necessario capire se i meridionali “ci vogliono o meno perché non abbiamo il diritto di sparare archibugiate su altri italiani”. L’autore non cita, ovviamente, i dati sconcertanti relativi ai briganti massacrati ed evidenziati nel recentissimo testo del prof. Gangemi (centinaia di migliaia le vittime, cone risulta dalle fonti archivistiche) e non cita neanche fonti ormai diffusissime come le parole del deputato lombardo Giuseppe Ferrari (Atti Parlamentari, dicembre 1861: “Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno portato due volte i Borbone sul trono di Napoli”).
Secondaria e involontariamente comica la storia della prima ferrovia, “un divertimento del re per collegare due regge”. Al di là del fatto che Francesco II di Borbone aveva già progettato e appaltato lo sviluppo delle altre linee ferroviarie (e tutto fu interrotto nel 1860 e molte linee al Sud ancora non ci sono dopo 160 anni) e al di là del fatto che i Borbone favorirono lo sviluppo delle “vie del mare” (prima flotta militare e mercantile italiana e tra le prime al mondo), l’articolista forse non conosce i dati della relazione “Chemins de Fer de Naples à Nocère et à Castellammare; Procès-verbal de l’assemblèe gènèrale 1851-1855, 1858” (Parigi, 1858): dall’inaugurazione del 1839 al 1857 viaggiarono su quella tratta più di 15 milioni di passeggeri con numerosissime tonnellate di merci. Altro che “giocattolo del re”…
Alla luce di tutto questo, ci chiediamo solo se l’autore, quando parla di unità che portò al Sud “un progresso di enorme portata e di valore inestimabile”, si riferisca ai tanti meridionali massacrati oppure ai milioni di meridionali che solo dopo l’unità (a differenza degli italiani di altre regioni del Nord) iniziarono ad emigrare per non smettere mai più fino ad oggi.
Il messaggio che vorremo far passare a Geopop e all’articolista, allora, non è finalizzato a tornare indietro nel tempo o a riportare sul trono i Borbone. A 160 anni dall’unificazione, dalla nascita di una questione meridionale mai risolta e, per i nostri giovani, sempre più drammatica con il prossimo rischio denunciato dall’ISTAT (la desertificazione del Sud), paradossalmente la strada nuova può essere proprio quella della ricostruzione della verità storica relativa all’unificazione italiana. Del resto la strada percorsa quasi ossessivamente da questo articolo e dalla storiografia ufficiale con la ripetitiva denuncia delle debolezze e dell’arretratezza del Sud non ha portato nessun risultato utile e ha prodotto classi dirigenti meridionali inadeguate, senza radici, senza senso di appartenenza e capaci solo di adeguarsi (spesso per interessi personali) ad un sistema duale italiano in cui una parte dell’Italia si è impoverita sempre di più e l’altra si è arricchita sempre di più e ogni riferimento alle recenti minacce secessioniste padane e al nuovo e prossimo regionalismo differenziato non è casuale (ma forse l’autore, troppo impegnato a dimostrare che le Due Sicilie non furono depredate dai Savoia, non se n’è accorto).
Gennaro De Crescenzo
Fonti e bibliografia essenziale
– Archivio di Stato di Napoli,
Fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio
Fondo Ministero Finanze
Fondo Ministero Istruzione
– Carlo Ciccarelli, Stefano Fenoaltea, “Attraverso la lente di ingrandimento: aspetti provinciali della crescita industriale nell’Italia post unitaria”, Quaderni di Storia Economica della Banca d’Italia, n. 4, luglio 2010
– Vittorio Daniele, “Il paese diviso”, 2019
– John Davis, “Napoli e Napoleone”, 2006
– Gennaro De Crescenzo, “Perché siamo neoborbonici” (nel libro anche un estratto del saggio online “Le scuole al tempo dei Borbone: altro che analfabeti”)
– Mario Del Treppo, “Spazio, società, potere nell’Italia dei comuni”, 1986
– Giuseppe Gangemi, “Senza tocco di campane”, 2024
– Antonio Gramsci, Scritti, 1913-1926: L’Ordine nuovo, 1919-1920, Torino, Einaudi, 1954; il testo fu pubblicato per la prima volta su L’ Avanti, mercoledì 18 febbraio 1920 con lo pseudonimo “Il lanzo ubriaco”
– Maurizio Lupo, “Tra le provvide cure di Sua Maestà. Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento”, 2005
– Francesco Saverio Nitti, “L’Italia all’alba del XX secolo, Discorso Quarto”, 1901
– “Le spedizioni di volontari per Garibaldi, cifre e documenti complementari al resoconto del Bertani”, Genova, 1861, ristampa a cura di Antonio Boccia
– Vito Tanzi, “Italica”, 2018