È stato appena pubblicato il nuovo libro del prof. Giuseppe Gangemi: “In punta di baionetta. Le vittime militari della Guerra Meridionale (1860-1870) nascoste nell’Archivio di Stato di Torino” (Edizioni Rubbettino, Soveria Mannelli). Si tratta di un libro per molti aspetti epocale per quello che riguarda la storia dell’unificazione italiana. È bene sottolineare che il prof. Gangemi è stato per diversi decenni professore ordinario e titolare presso l’Università di Padova di una cattedra in questo caso più che mai preziosa come quella di Metodologia della Ricerca. Da alcuni anni Gangemi sta effettuando ricerche in particolare presso l’Archivio di Stato di Torino per intervenire nel dibattito ancora in corso in merito alle vittime militari nel corso della “guerra meridionale” dall’arrivo di Garibaldi in poi. In attesa che completi le sue ricerche anche sulle vittime civili (ricerche anche in questo caso più che mai complesse e più che mai necessarie), possiamo affermare senza alcun dubbio che siamo di fronte al libro-svolta che più volte ci siamo augurati di leggere sia per le modalità della stessa ricerca (curata nei minimi dettagli e in sostanza oggettivamente inoppugnabile) che per le conclusioni. Rappresenta, inoltre, un grande valore aggiunto il fatto che si tratti di un testo scritto da un affermato e apprezzato accademico: quando spesso “attacchiamo” la cultura “ufficiale” ci riferiamo a tanti accademici che sostengono più o meno le stesse tesi risorgimentaliste di oltre un secolo e mezzo fa e di certo non ai (coraggiosi e onesti) ricercatori che in questi anni, forse anche grazie alla spinta di tante pubblicazioni non accademiche e in numero crescente, hanno affrontato i temi relativi alle questioni meridionali in maniera innovativa e alternativa così come dovrebbe sempre essere nella ricerca storica.

Entrando nel dettaglio, sono confermati tutti i nostri (tanti) dubbi, ad esempio, sulla “chiusura” della questione-Fenestrelle (la fortezza nella quale furono rinchiusi migliaia di soldati dell’esercito dell’ex Regno delle Due Sicilie) operata (e molto pubblicizzata) dal prof. Alessandro Barbero in questi anni. Altro che “questioni chiuse”: Gangemi evidenzia tutte le lacune e le incongruenze di quel libro pubblicato dal famoso docente piemontese di storia medioevale, “punti deboli” che in parte, tra l’altro, aveva messo in evidenza Pino Aprile in “Carnefici” e anche il sottoscritto in diversi articoli e in un libro di qualche anno fa citato spesso da Gangemi (“Il Sud dalla Borbonia Felix al carcere di Fenestrelle”) e in un confronto del dicembre del 2012 alla libreria Laterza di Bari con un video che conta “centinaia di migliaia di visualizzazioni”, come rileva anche Gangemi, “a dimostrazione dell’interesse pubblico verso questi temi”.

Partendo da quel confronto, è doveroso un ringraziamento per l’autore del libro di cui stiamo parlando perché sottolinea alcuni aspetti (per me e per tanti studiosi “volontari”) interessanti e gratificanti. Per Gangemi, allora, “gli studiosi neomeridionalisti hanno vinto la loro battaglia presso l’opinione pubblica ormai convinta della morte di migliaia di soldati” mentre gli accademici trovano consensi spesso “solo in seno alle accademie” magari organizzando convegni senza la “controparte” e con al centro non i dibattiti ma “azioni di propaganda per l’egemonia culturale su tematiche divisive dell’opinione pubblica nazionale”.

Da quell’unico confronto di Bari, allora, si evince “una forte valenza metodologica con due antagonisti d’eccezione”: da un lato Barbero (apprezzato docente universitario spesso presente anche in tv) con la sua tesi centrale (“è immensa ed esauriente la mole di documenti a disposizione”) e De Crescenzo che “conosce gli archivi al punto da immettere nel dibattito continui riferimenti a dati provenienti da vari archivi e varie fonti” e sostiene un’altra tesi: abituato agli archivi della storia moderna, ritiene carenti le informazioni e necessarie altre ricerche. Così “il presidente dei neoborbonici fa una lunga serie di osservazioni sui documenti che mancano e cita Chabod e i suoi dubbi sul metodo storico” (“Ma di fronte ad una pergamena o ad un foglio di carta ritrovato in un archivio, ogni dubbio cade, trovato il documento, trovata la verità”), convinto del fatto che “proprio i documenti pubblici possano essere i più subdoli e tendenziosi” (e nel caso di Barbero si tratta in gran parte di documenti pubblici). E così, sintetizza Gangemi, “mi pare che la ricerca fin qui condotta dia ragione a De Crescenzo e mostri l’ingenuità storiografica di Barbero e […] alla fine mi sono risultati convincenti gli argomenti metodologici e logici di De Crescenzo rispetto a quelli di Barbero”. Nel corso di quel dibattito evidenziai più volte le mie perplessità sul libro di Barbero (“I prigionieri dei Savoia” il suo ambivalente titolo) e anche su quello scritto in precedenza da due ricercatori con prefazione dello stesso Barbero (“Le catene dei Savoia”, con un titolo ancora ambivalente). Dalle ricerche effettuate dal sottoscritto e da una piccola squadra di collaboratori sembrava evidente che prevalesse la linea della parte per il tutto e cioè che venissero utilizzati pochi documenti (63 unità archivistiche sulle 2773 presenti sul tema -come si evince da una risposta protocollata dello stesso Archivio- e per circa due anni in tutto, fermandosi al 1862) e tutti a confermare la tesi centrale “riduzionista” o in qualche caso “negazionista” (Fenestrelle non fu un lager, vi morirono pochissimi soldati e pochissimi furono i soldati a morire in quegli anni e chi dice il contrario racconta fake news e magari persegue pure -chissà perché e come- “fini immondi”).

I sospetti sono stati confermati in pieno dalle nuove ricerche di Gangemi, ricerche che evidenziano gli “errori” delle precedenti ricerche e anche le stranezze, le cancellazioni, le sparizioni di migliaia di documenti, a dimostrazione del fatto che di certo non siamo di fronte a quelle “pedanterie o pignolerie sabaude” esaltate da Barbero e dagli altri autori. Diciamo da sempre che chi frequenta  davvero gli archivi sa bene che gli archivi conservano una minima parte dei documenti prodotti tanto più se si tratta di temi delicati e lontani nel tempo e la tesi vale anche per episodi spesso al centro di altri vivaci dibattiti (ad esempio su Pontelandolfo e Casalduni o sul brigantaggio). In questo caso la “metodologia della ricerca” applicata da Gangemi per il suo libro emette una sentenza definitiva. Entrando nel dettaglio mancano, ad esempio, interi registri (la metà di quelli che esistevano) relativi alle Compagnie di Disciplina (“non sono mai arrivati in archivio”, dichiarano i responsabili dell’Archivio torinese solo per difendere se stessi e poco importa ai fini del completamento di una ricerca). Le stesse fonti militari agli inizi del Novecento attestano la distruzione di oltre 50.000 documenti riferibili al “brigantagggio” e la questione sembra chiara se si pensa che i criteri per la conservazione di quei documenti erano legati alla finalità di raccontare “i più bei fatti d’arme” per tramandare l’onore delle truppe coinvolte. Presumibilmente, allora, un sesto dei 300.000 documenti complessivi è stato distrutto proprio perché riguardava le stragi peggiori, in particolare su casi isolati e/o di civili coinvolti e non intere bande di briganti. Utile aggiungere che, come evidenziato da Pino Aprile in “Carnefici” (carico di fonti anche inedite e spesso contestato da chi non lo ha mai veramente letto), in quel periodo schiere di funzionari “sabaudisti” (questa la definizione usata dalle autorità) erano preposte al controllo di biblioteche e archivi. Sempre in “Carnefici”, del resto, le prime statistiche militari con quella strana definizione affibbiata a migliaia di morti (oltre 9000 “per cause indipendenti dal servizio”), definizione che nel corso delle ricerche effettuate dal sottoscritto con Aprile presso gli archivi napoletani, gli stessi responsabili degli archivi associavano con buona probabilità ai soldati meridionali scomparsi in quegli anni.

Così, per Gangemi, il prof. Barbero incorre in diversi errori metodologici quando non rispetta la gerarchia delle fonti, i loro aspetti collaterali, la loro contestualità (e cita anche il caso di un suo intervento su Masaniello-“camorrista” smentito dalla stessa autrice di un libro citato). Significativo il fatto che nel testo viene praticamente smantellata la fonte centrale di Barbero che utilizza i documenti del 41° Reggimento come un campione per dimostrare la sua tesi: al di là di diverse incongruenze, sono proprio quei dati a dimostrare, grazie ai calcoli statistici di Gangemi, che in quegli anni si verificarono fatti drammatici e in quantità tutt’altro che “minime”. Le analisi di Gangemi sono dettagliatissime e arricchite da grafici, tabelle e, come detto, da calcoli statistici, tra le carte del Corpo Franco (corpo “di punizione” nel quale erano inseriti i soldati napoletani in particolare a Fenestrelle), delle successive Compagnie di Disciplina e tra le Relazioni Ministeriali.

 

Nelle prime pagine vengono evidenziati alcuni punti importanti anche per i risvolti legati all’attualità della questione meridionale. E così, se risulta chiaro che una buona parte dei tantissimi documenti relativi al brigantaggio è sparita forse per sempre, risultano chiare anche le finalità di certe “censure” o della continuazione di linee sempre uguali da parte della storiografia ufficiale, la stessa che sembra privilegiare sempre e comunque la tesi “tutta colpa del Sud”, con preconcetti e luoghi comuni ancora diffusi anche tra i politici e gli opinionisti di oggi. “Siamo eredi delle partigianerie che hanno prodotto l’unità d’Italia”, scrive giustamente Gangemi e, come conseguenza di tutto ciò, evidenzia le “forme di disuguaglianze imposte e teorizzate”.

Il libro è fornito anche di preziosi “riepiloghi e punti della situazione”, alla fine di ogni capitolo, aspetto che ci fece apprezzare anche un altro suo importante saggio (“Stato carnefice o uomo delinquente? La falsa scienza di Cesare Lombroso”), anch’esso decisivo per qualità e quantità delle fonti e per la chiarezza delle tesi, nel giudizio che bisognerebbe finalmente attribuire ad uno scienziato che condizionò la storia meridionale e italiana fornendo la base culturale prima per il massacro indiscriminato dei meridionali/briganti e poi ad una sorta di razzismo che ancora serpeggia nella società italiana ai danni del Sud.  Due sono i “perni” intorno ai quali spesso si è mossa la ricerca accademica: “i vincitori vanno sempre difesi” e “tutto deve essere fatto per evitare che lo sconfitto si accorga di quando si possa smascherare il vincitore” (e i suoi eredi). E così schiere di storici anche recenti, però, “non parlano, non vedono e non sentono” lacune o incongruenze. E così, analizzando il testo di Barbero con quei 1200 prigionieri che da Capua furono portati a Fenestrelle (viaggi di giorni e decine di chilometri a piedi e in salita) e, tra cifre “ballerine” da una pagina all’altra, Gangemi sottolinea la sparizione di circa 100 soldati. Stessa storia per oltre 8500 soldati di fatto cancellati nei vari passaggi burocratici e in barba alla “pedanteria sabauda” più volte esaltata da Barbero. E così “i ruoli matricolari dei Cacciatori Franchi si fermano al 1861” (nell’archivio torinese ti invitano a consultare il database ma si trovano solo i nominativi e, effettivamente, fino al 1861). E così, abolito il Corpo Franco, i soldati vengono assegnati alle Compagnie di Disciplina: su 1223 di essi, per il 75% manca il numero di matricola che vanno ad assumere nelle Compagnie. Delle stesse 12 Compagnie mancano, come detto, la metà dei registri (quelli delle Compagnie 5, 7, 8, 9, 10 e 11 ed è da rilevare che quelle “dispari” erano Compagnie “di punizione” per soldati “di incorreggibile condotta” e, con molta probabilità, quelle “pari” erano preposte ad accogliere autori di furti e altri reati “ordinari”). E così, delle due compagnie dispari di cui si hanno i registri, gli ufficiali dichiarano di avere oltre 900 soldati ma nei ruoli matricolari ne risulta meno di un decimo. E così resta inquietante quel documento che citai già nel mio testo sul tema e che Gangemi analizza e contestualizza: nelle segrete di Fenestrelle era ospitato almeno un migliaio di prigionieri e se ancora nel maggio del 1863 si richiede l’urgente costruzione di alte “30 celle oscure” (per forzati con i ferri) i numeri erano e restano molto, troppo alti anche in considerazione dei tanti soldati senza “assento”. E così sono numerosi i casi di soldati ricoverati in ospedale ma senza la registrazione della loro uscita. E così anche i numeri (ridotti) delle morti “certe” perché attestate nei registri parrocchiali non sono affatto certi (dei nominativi -riportati anche nel libro- dei 52 meridionali trascritti nei registri parrocchiali, solo 4 di essi erano presenti, ad esempio, nei Ruoli Matricolari dei Cacciatori Franchi).

Centinaia, allora, i morti a Fenestrelle, utilizzando proiezioni statistiche oggettive e, ammesso (e non concesso) che il parroco sia riuscito a registrare tutti i morti. Oltre 4000, con le stesse proiezioni, i morti di tutte le Compagnie. E così la stima che si può dedurre dalle stesse statistiche ufficiali dell’esercito è che si tratta di oltre 15.000 morti tra i soldati meridionali (per meno di 10 anni) confrontando le statistiche relative agli anni precedenti e a quelli successivi al periodo di cui parliamo e considerando anche le vittime delle guerre combattute (terza guerra di indipendenza, “sette e mezzo” in Sicilia o morti per colera).

E così oltre 11.000 soldati mancano nel confronto tra i numeri dell’esercito napoletano e quelli trascritti nei ruoli e a questi si devono aggiungere diverse migliaia di “nuove leve resistenti” e diverse migliaia di soldati che opponevano “resistenza passiva” e anch’essi non vengono trascritti tra misteriose e lacunose registrazioni come “errate figliazioni” (8500), ruoli matricolari bloccati (1600) e con altre 5668 unità che rimangono nel limbo della burocrazia (meno di 6000 i “rieducati o ammorbiditi”). E così ci ritorna alla mente il “mistero” di quella targhetta sparita in questi anni presso il Museo dei Carabinieri di Roma e nella quale, in piena epoca fascista, si attestava la permanenza a Fenestrelle di “oltre 40.000 soldati napoletani” dal Volturno in poi.

E si fa strada un’ipotesi molto credibile: pensando di non avere alternative, i soldati napoletani si consegnarono, arrivarono nei reggimenti, accettarono biancheria e uniformi ma volevano essere trattati come prigionieri di guerra e non volevano giurare. Per questo l’esercito cancella la loro registrazione confermandola solo a chi giurava dopo mesi e a volte dopo anni. Gangemi pensa a questo quando parla di “resistenza passiva”, una resistenza che fece migliaia di vittime anche per gli stenti, il freddo, le malattie, tutte conseguenze che, giorno dopo giorno, mese dopo mese e anno dopo anno, non potevano (e non dovevano) essere ignorate dalle autorità militari e civili troppo impegnate, evidentemente, a minimizzare e a non mostrare a se stessi e al mondo esterno che esistevano così tante persone “in disaccordo” con la politica italiana di quegli anni. Del resto la chiave di tutto il discorso è nelle parole che ricordai più volte a Barbero nel confronto barese e che Gangemi riporta nel testo. Sono le parole di un soldato napoletano intervistato da Bertrando Spaventa mentre era in piazza insieme a centinaia di soldati in marcia verso le loro prigioni: “Perché non ci hanno rimandato alle case nostre?”. Se tutto fosse stato corretto, in buona fede e a fin di bene, perché, il governo sabaudo decise di portare a termine quelle deportazioni e per tanti anni? Perché, magari di fronte ai primi ricoveri, alle prime morti, alle prime diserzioni o ai primi disagi, non decise di evitare le partenze di quelle migliaia di soldati e di “non rimandarli a casa”?

Del resto la linea che da 160 anni vuole a tutti i costi dimostrare il coinvolgimento e l’entusiasmo dei meridionali nell’unificazione italiana è una linea ancora oggi prevalente a livello accademico (“Da Sud. Le radici meridionali dell’unità d’Italia” il titolo di un grande convegno organizzato a Napoli per i 150 anni) ed è la linea che tende a cancellare la storia del dissenso (tra i soldati come tra i cosiddetti “briganti”) attribuendo di fatto agli stessi meridionali le colpe dei fallimenti legati all’unità e della stessa successiva questione meridionale.

Non mancano, nelle oltre 200 pagine del testo, spunti ironici e da vero e proprio giallo ad esempio nel racconto dei tormentati rapporti tra l’autore e i responsabili dell’Archivio di Torino con regolamenti che di volta in volta rendevano difficile se non impossibile l’accesso ai documenti richiesti (spesso non è vero quello che ogni tanto spunta sul web a proposito di documenti secretati ma è vero che diversi archivi creano molte difficoltà nell’accesso a certi documenti, specie per chi lavora da volontario e ha tempi e mezzi limitati per le sue ricerche). Alla fine del suo libro Gangemi si augura uno “sforzo collettivo” per ulteriori ricerche e, poi, un monumento per quelle migliaia di eroici “resistenti passivi” dimenticati o cancellati dalla storia. Noi non possiamo che associarci a questo augurio ricordando le parole di quei soldati, parole riportata anche dall’autore nel suo libro. “Uno Dio, uno re”, gridavano a chi gli offriva sopravvivenza e carriere. In tanti, come recitava una lapide distrutta da una mano ignota qualche anno fa nella fortezza di Fenestrelle, “non tornarono a casa”.  Nessuno ricerca vendette o risarcimenti. Nessuno vuole dividere il nostro Paese (diviso ancora, dopo 160 anni, purtroppo, nei diritti assicurati in maniera diversa al Sud e al Nord al contrario di quanto prevede la nostra bellissima Costituzione). Qualcuno ha parlato di “fini immondi” ma qui l’unico fine è quello di raccontare la nostra storia, tutta la nostra storia e magari far conoscere alle prossime generazioni le storie di quei soldati lontani nel tempo e che portavano i nostri nomi e cognomi meridionali. Testimoni semplici di altri valori: quelli della lealtà, della fedeltà e della coerenza. Piccoli e semplici eroi, in fondo, di un’altra storia: la storia dei vinti.

Gennaro De Crescenzo